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“O’ vic de scarpar”

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scritto e pubblicato a febbraio 2009 da Donato Liotto - alt Da diversi giorni abbiamo iniziato una ricerca sulle nostre memorie locali ovviamente parliamo della gente semplice di Aversa e non solo.Questo traggitto lo abbiamo chiamato “Goccie di memoria” .Iniziamo questo percorso con il primo articolo dedicato ai calzolai aversani (quelli veri) il titolo “O’ vic de scarpar” parla di questi maetri della scarpa e delle loro storie. Ci rendiamo conto che Vi sarà impossibile pubblicarlo..ma comunque ve lo inviamo lo stesso per noi già è un privilegio sapere che leggerete queste storie vere e genuine.Vi auguriamo un buon lavoro e presto Vi invieremo altri scritti a riguardo di tante altre storie belle che ci riportano alla memoria dei nostri nonni e dei nostri genitori.Aversa sarà anche la patria di Cimarosa..ma non ce ne Vogliate se affermiamo che prima di tutto è la patria dei calzolai!! “O’ Vic de scarpare” Questa storia la voglio iniziare a raccontare, proprio come se fosse una favola. “C’era una volta, tanto tempo fa” (per la verità mi vien da dire…“non tantissimo tempo fa”), una strada di Aversa che pulsava di vita. Era, anzi è via Bersaglieri, detta anche “Aret a chiazz de pene”. Tra la fine degli anni ‘60 e fine anni ’80, in questa stradina caratteristica del centro storico di Aversa e a ridosso con “N’cop o Lummetone” (via Orabona), dove bastava passeggiare e ogni cinque metri bisognava fermarsi e salutare con simpatia e calore i tanti calzolai. “’e Scarpar”, che, lungo la stradina, avevano davanti ai loro “bassi” i banchi di lavoro. Ma sarebbe più corretto dire i “famosi bancarielli”, con tanto di forme di scarpe ai loro piedi, tomaie nell’acqua ad ammorbidire prima di montarle sulle forme, lattine di bostik, puntine ma meglio conosciute come “semmenzelle”. Sembrava di attraversare una sorta di catena di montaggio a cielo aperto. Una scena, questa, che si poteva bene incastonare in un presepe vivente. Man mano che si attraversava la via si vedeva il “bancariello” di “Capaianca” che stava mettendo le tomaie sulle forme, poi quello del “Solece” che metteva la suole e i tacchi, poi alla fine si arrivava al bancariello di “Aitane” (Gaetano) che stava passando la cera sulle scarpe finite e le lucidava. Poi quello del “Cavaliere” che, con spago e punte di setola e pece, cuciva le pattine sopra le tomaie ogni punto con precisione estrema. E poi, “Rafele ‘o Baffone” che, con i suoi 13 figli, bastava a riempire un’intera strada, da ricordare anche “Barbarossa”, “Ajtane ‘e Perapera” “Chille ‘e Fatinella”, “Mast’Aniello ‘o Fresatore”, “Pascale ‘e Fetacchiella” e tanti altri ancora che lavoravano in altri rioni di Aversa. Tutti dediti a lavorare le scarpe. Questi nomignoli, questi personaggi e qui ne citiamo solo alcuni per questioni di spazio, nell’ambiente erano considerati veri maestri artigiani delle scarpe, quelle vere, fatte con amore, sacrifico e tanto impegno. Ma va precisato che ne erano molti di più questi grandi lavoratori, in rappresentanza di una categoria che è scomparsa, ma che resta indelebile nella memoria di chi ha vissuto quell’epoca.Dalle cinque del mattino alle 22 si mettevano dietro al bancariello che affacciava sulla strada e con loro tutti i componenti delle loro famiglie, intorno, fuori e dentro i bassi. La giornata la svolgevano tutta lì. Anche i figli partecipavano e contribuivano dopo la scuola, portando le scarpe alla “Fresa”, alle botteghe di “Bruno ‘o fresator” o di “Federico Shember”. Anche questi perni essenziali e vitali per tanti artigiani che, non avendone le possibilità e le attrezzature, mandavano le loro scarpe da questi ultimi per il completamento. Le scarpe venivano poste a due dozzine alla volta nei “Carruoccioli di legno”. Mezzo di trasporto, questo, realizzato con quattro ruote di bicicletta e quattro pannelli di legno spinto a mano in un viaggio fatto di tanti incroci tra un carruocciolo e un altro. Questo creava anche qualche scambio di battute a chi faceva più scarpe da portare alla “Fresa”. Difatti, più viaggi si facevano e maggiori erano gli introiti. Oggi tutto questo è sparito. Rimane una strada vuota, con quei bassi chiusi.A testimonianza di un tempo che mai più tornerà. Tante famiglie che lavoravano gomito a gomito, che su quei bancarielli facevano scorrere giornate intere, quando era ora di pranzo o ci arrangiava con “’a ‘mbost”, un pezzo di pane con in mezzo di tutto e di più, pppure con “past e patan” o “past e fasul”, con un chilo di pane sotto: ‘na vera prelibatezza! Il bancariello veniva coperto con un “mesale” e si apparecchiava la tavola. In questi momenti si faceva anche a gara a scambiarsi la “’mbosta”, magari a qualcuno non andava “pane e sasiccie” e la scambiava con il “pane e pruvulone” del collega del bancariello a fianco.Quando poi c’era da festeggiare qualche onomastico, compleanno, battesimo, fidanzamento, era tutta una festa. Ma in realtà era pure una scusa, per smettere di lavorare e divertirsi tutti assieme. Con balli, tarantelle e taniche di vino a iosa. Non c’era bisogno di invito: chi si trovava a passare da quelle parti doveva solo sedersi e mangiare. Erano tutti solidali, l’uno con l’altro.Queste generazioni di “grandi artigiani” hanno negli anni costruito e donato ai propri figli e nipoti, realtà imprenditoriali rilevanti. Oggi le loro attività si svolgono nel chiuso di un capannone, o in un polo calzaturiero. Non si incontrano più. Ma continuano a lavorare con quello spirito e con quella volontà che negli anni si è tramandata da padre in figlio. Ancora oggi, fianco a fianco, padri, figli e nipoti. Ma la magia di quelle strade non c’è più.Resta solo un labile ricordo, che ogni tanto riaffiora, nei racconti di chi ha conosciuto e vissuto quell’epoca semplice, umile, ma per certi versi davvero straordinaria. “’O vic de scarpar”, dei maestri delle scarpe, quelle vere, intrise di sudore e sacrificio. --"O Scarpare" Io faccie ‘o scarpare a quasi vint’anne. Da matina a sera, miezze a sta via, a rete o bancarielle mije, m’assette, e pe na jurnata intera me scord pure e m’ajezza! ‘Nzieme a me, cè sta tanta gente, figli, nipote e tanta parente. O tiempe è cè salutà..e già stamm ca cap acalate.. ‘ncopp e scarp..avimma faticà. Cert…si me dimmannate e me chiedite “chi to fa, fa?” presto ve risponn accussì: Che gioia che prove montannne e tumaie, ‘ncullarle e scullarle.Metterce e sole, e po a fine e tacche. Fresarle, po all’urdeme apparecchiarle, lucido o nero, marrò o testa ‘e moro. A finale ce mitte o campiglione: a cart rinta a scarp. A scarpe è pronte. Se po’ cunsegnà! Appena vene o Rappresentant se piglie a duzzin, Isse è cuntent, ce pave e senne va. O surore e chesta fronte e calle miezze e mane nun bastan a ce fermà. Chiste è o mestiere nuoste, sule chest sapimme fa. Perciò si m’addimanate pecchè.A risposta è chesta ccà. Nuje faticamm matine e sera..ca speranze che pure dimane putimme magnà!-- (D.Liotto)

 




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